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Spunti per un dibattito sul reclutamento


 Sia chiaro: i precari sono ben consapevoli di essere la categoria che all’interno dell’università ha maggiormente sperimentato sulla propria pelle le distorsioni di un sistema di reclutamento in larga parte fondato su pratiche mafiose e clientelari. Ciò significa che non possiamo non vedere con favore sia l’introduzione di meccanismi di valutazione dei singoli dipartimenti che una profonda revisione delle procedure di reclutamento precedenti e successive alla legge 240 (visto che, almeno per quanto riguarda la selezione dei ricercatori a tempo determinato TD, la nuova normativa ha solo peggiorato i vecchi sistemi concorsuali localistici e deresponsabilizzanti). L’incentivo a politiche di reclutamento virtuose e la limitazione degli arbitri delle commissioni sono elementi necessari per costruire un’università nella quale un giorno si possa dire “è uscito il bando per un concorso in scienze di questo argomento” e non “è uscito il bando per il concorso di Mario Rossi”.

Purtroppo però in Italia le cose non prendono mai la piega auspicata e la costruzione del nostro sistema di  valutazione è divenuta rapidamente oggetto degli appetiti della politica e delle lobby accademiche, che hanno subito cercato di trasformare l’organismo di valutazione in uno strumento delle proprie lotte di potere.

Per quanto riguarda la politica, negli ultimi due anni sono apparse chiare le volontà di trasformare l’ANVUR in terreno di lottizzazione e di usarlo come arma per mettere l’università e la ricerca sotto un controllo politico e ministeriale sempre più asfissiante e per ridurre i poteri e l’importanza del CUN, i cui membri, a differenza dell’ANVUR, non sono di diretta nomina politica, ma elettivi e quindi più indipendenti (anche se purtroppo l’elezione dei suoi componenti è stata spesso condizionata dall’influenza di corporazioni e di società scientifiche notoriamente dominate dall’influenza di cupole baronali). In particolare, nell’ambito di queste dinamiche sono stati impropriamente assegnati all’ANVUR compiti e funzioni che non dovrebbero essere propri di un organismo di valutazione finale, primo fra tutti la possibilità di intervenire sulle procedure di reclutamento, visto che l’arbitro non dovrebbe mai avere voce in capitolo sulla formazione delle rose delle squadre (quando questo accade si crea evidentemente un corto-circuito: un conflitto di interesse nel quale l’ANVUR finirà inevitabilmente per giudicare se stessa e le proprie scelte). E’ inoltre evidente che nella nomina (da parte della politica) dei membri dell’ANVUR non è stata tenuta in alcuna considerazione l’esperienza nella valutazione della ricerca: da qui il caos-abilitazioni e i clamorosi errori ampiamente denunciati dal sito Roars e da altri soggetti universitari. A questo proposito vogliamo comunque precisare che, a nostro giudizio, gli errori commessi dall’ANVUR non significano che la bibliometria (esclusivamente nei settori nei quali è consolidata e utilizzabile) debba essere rifiutata. Riteniamo anzi che essa tuteli i precari di quei settori dagli arbitri e dalle pratiche mafiose del reclutamento universitario, a patto che nei settori “bibliometrici” venga usata con ragionevolezza e che non sia estesa arbitrariamente ed impropriamente ad altri settori, nei quali non è evidentemente applicabile.

Se il reclutamento deve essere numericamente esiguo, non siamo naturalmente contrari a che i pochi posti vadano agli studiosi più capaci e perciò a criteri molto selettivi. Ma contestiamo con forza la premessa (l’esiguità del reclutamento) e il criminoso disegno perseguito dalla legge 240 di abolire la figura del ricercatore a TI costringendo i precari a dover competere con ricercatori con molti più anni di attività alle spalle e quindi con curriculum mediamente più corposi (competizione oramai inevitabile, visto che la figura del RTDb, la presunta tenure track, è stata un clamoroso e miserabile fallimento). Poiché è ben evidente che la combinazione di questa scelta e dell’esiguità del reclutamento è già di per se letale per tutte le generazioni under-40, riteniamo di non poterci proprio permettere l’inettitudine e le perdite di tempo dell’ANVUR.

Per queste ragioni:

 – ci uniamo alla richiesta di dimissioni dei componenti dell’ANVUR

– chiediamo che il ministro intervenga rapidamente per consentire l’avvio e la conclusione in tempi brevi delle procedure per le abilitazioni scientifiche nazionali e per abrogare tutte le decisioni sue e dell’ANVUR che potrebbero essere oggetto di fondati ricorsi e produrre un ulteriore allungamento dei tempi

– pretendiamo che la politica prenda immediatamente atto del fallimento della presunta tenure track e, prima di completare del tutto il genocidio della generazione under-40, riformi pesantemente la legge 240, tra le altre cose introducendo una figura a tempo indeterminato al di sotto della posizione di professore associato

– ribadiamo la richiesta di restituire alle università i fondi necessari per far ripartire quanto prima le politiche di reclutamento

  1. 2 ottobre 2012 alle 11:00

    “La bibliometria a mio parere non un metodo giusto per la valutazione dei ricercatori, si veda ad esempio quello che succede in Australia. Il sistema britannico (molto criticabile) si basa invece sui panels ovvero sulla peer review (la sede delle vendette o dei premi) che però è meno peggio. Con la bibliometria non si avrebbe mai la vera ricerca = frontiera, ma tutti studieremmo il mainstream. Perciò, ceteris paribus, il sole girerebbe intorno alla terra, perché chi avrebbe avuto il coraggio di citare Galileo nel 1600?

    Io sono fortemente critico verso queste forme di valutazione e anche sul modello inglese si possono leggere molte critiche ai metodi e alla burocratizzazione imposta dal Rae (che non teneva conto dei risultatio dei ricercatori a contratto), al nuovo Ref, il cui temine ad quem è slittato al 2016, per scarsità di fondi, data la crisi. Proprio su questo aspetto punterei il dito, ossia sul costo, in Italia come all’estero, di questi carrozzoni. Per il resto la cosa più intelligente che ho letto su questi argomenti è http://www.academie-sciences.fr/activite/rapport/avis170111.pdf

    Pasquale Cuomo

  2. 18 ottobre 2012 alle 22:53

    Alcuni anni fa la vecchia RNRP (rete nazionale ricercatori precari) produsse alcune bellissime analisi sul funzionamento del reclutamento nell’università italiana, dei quali purtroppo non riesco più a trovare i link. Erano descritti in maniera straordinariamente accurata le logiche e i meccanismi di un sistema formalmente concursuale, ma di fatto cooptativo, e i criteri in base ai quali si decideva di bandire un posto e di assegnarlo al futuro vincitore, criteri del tutto sganciati dal talento, dalle capacità e dall’impegno dei candidati.

    Da allora sono cambiate molte cose, non sui reali criteri di base del reclutamento (che peraltro da due anni è oramai bloccato), ma sul piano politico. In particolare, a partire dal 2008 c’è stato un violento attacco al sistema universitario che ha prodotto ingenti tagli al FFO e la legge 240, il cui obiettivo reale è l’istituzionalizzazione dei tagli, ovvero l’istituzione di una nanouniversità a costo ridotto per il bilancio pubblico. Un’università nella quale la ricerca sarà ben concentrata in poche aree (disciplinari e geografiche) “di eccellenza” e l’accesso sempre più riservato ai ceti abbienti.
    Questi avvenimenti hanno avuto un certo impatto sull'”agenda” dei precari, che sono stati spinti sulla “difensiva” e hanno avuto molta difficoltà a portare avanti la propria critica ad un sistema che a quel punto andava necessariamente difeso. In un certo senso, a quel punto l’alternativa era fra una profonda ristrutturazione in senso regressivo e la scelta di questa seconda opzione ha portato automaticamente a mettere in secondo piano la critica alla cooptazione e ai meccanismi di reclutamento. Dinamica che è stata poi rafforzata dal timore di usare argomentazioni in sintonia con alcune affermazioni dei distruttori dell’università e dei profeti delle università di elite (leggi: differenziazione del sistema in atenei di serie A per i ricchi e di serie B per i poveri).
    Tutto questo però non è un bene, perché non si può giocare solo in difesa, accettando il sistema attuale e passando dal rischio di fare analisi (su alcuni punti) in sintonia con i devastatori al rischio di fare analisi (su alcuni punti) in sintonia con le mafie accademiche. Tanto più che, passando dalle analisi agli obiettivi, mi sembra chiaro che gli obiettivi dei precari non possono essere in sintonia né con gli uni, né con gli altri.
    Per questo ritengo che si dovrebbe cercare di essere più attivi (e più entusiasti) sulla denuncia degli scandali concorsuali e sulle iniziative per cercare di arginarli e contrastarli (a partire, per esempio, dallo scandalo dei profili nei bandi per RTD, sui quali si è troppo taciuto).

    Per queste ragioni, non soffro di orticaria al sentir parlare di bibliometria. Personalmente ho trascorso la mia esperienza universitaria in un settore fortemente bibliometrico, nel quale la consapevolezza (da parte di chiunque) che la bibliometria avrebbe avuto un ruolo centralle nella valutazione, nel reclutamento e nella distribuzione dei finanziamenti è ben consolidata da oltre 20 anni. In questo tempo è stato chiaro a tutti che i migliori lavori andavano inviati alle riviste a più alto IF e che si doveva scendere di livello della rivista man mano che l’autovalutazione dei propri risultati diveniva meno entusiasta.
    Inviare un articolo ad una rivista con peer review significa affidarsi ai giudizi di due o più revisori anonimi, di norma stranieri e operanti nel proprio campo di ricerca, che necessariamente lo leggeranno (a differenza di quello che fanno le commissioni di concorso e di quello che faranno le commissioni per l’abilitazione) e esprimeranno una giudizio disinteressato, o comunque molto meno interessato di quello delle commissioni. Per questo motivo non concordo con l’idea che nei settori fortemente bibliometrici la bibliometria debba essere solo “uno dei tanti fattori dei quali la commissione può tenere conto”, visto che l’esperienza insegna che gli altri fattori tendono ad essere sempre piuttosto inconfessabili, e non sono sconvolto dal fatto che chi ha indici bibliometrici molto bassi possa essere escluso (anche automaticamente) da una valutazione, lasciando alle commissioni solo il potere di stabilire limitatissime eccezioni casomai dovesse presentarsi il caso di uno che ha svolto ricerche da Nobel riportandole su un solo articolo pubblicato su una rivista di bassissimo livello e citate da nessuno.

    Ho molta stima per i redattori di Roars (sulla quale ho anche pubblicato un paio di post) e trovo che quasi tutte le loro critiche siano ben fondate, il che pone forti riserve non sulla bibliometria in sé, ma sull’uso che l’ANVUR ne sta facendo.
    In particolare, mi sembra evidente che estendere l’uso bibliometria a settori nei quali semplicemente non esiste è un’aberrazione, che non si possa affidare un processo come l’attribuzione delle abilitazioni ad algoritmi estemporanei inventati sul momento, che i criteri bibliometrici debbano scremare verso il basso chi ha lavorato poco e niente e non essere tarati addirittura sulla mediana, peraltro rozzamente stimata, della categoria d’arrivo (scelta che inciderà tantissimo sulla scelta delle linee di ricerca, con tutti gli effetti deleteri già sperimentati all’estero) e che probabilmente si sarebbe dovuto dare più peso ai fattori di impatto (che, come ho detto, presuppongono comunque una valutazione “umana” dei lavori) e non su criteri puramente quantitativi come il mero numero di articoli e di citazioni.
    Pretenderei insomma (solo per i settori bibliometrici) un uso intelligente della bibliometria, ma non commetterei l’errore di unirmi alle cupole baronali nella critica alla bibliometria tout court e nella richiesta di ritorno al puro arbitro dei commissari, i cui effetti conosciamo da decenni.

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